jueves, 2 de febrero de 2017

RACCONTO: VITE PARALLELE THE NJCHLAS' STORY VI


RACCONTO:

Per. Pietro Bazzoli
Illustrazione: Daniele Enoletto 


Fu allora che la vide. Di spalle, intenta a fissare un quadro qualsiasi tra i mille che erano appesi alle pareti degli Uffizi. 

Uno tra i tanti che a Njchlas parevano sfuocati, come acquarelli inondati da un fiume in piena in quel frammento rubato al tempo nel quale non si ricorda nulla oltre ciò che si guarda. 

Il ragazzo sentì il tempo pietrificarsi tra le sue dita, davanti ai suoi occhi, mentre indugiava attonito sulla figura della ragazza dai lunghi capelli dorati. 

Gli parve di averla vista altre mille volte prima d'allora, in un passato che non era fatto di ricordi, ma di semplici sogni. 

I capelli erano l'unica cosa che vedeva di lei: una massa che scendeva come una cascata di stelle lungo la sua schiena, a raggiungere le gambe che s'intravedevano slanciate sotto la gonna. 

Era un attimo formato da una mancita di secondi, ma capace di racchiudere al suo interno il mondo intero e che per lui avrebbe potuto durare per sempre. 

Una visione simile, tanto sublime da far male, sarebbe stata difficile da rappresentare per qualsiasi pittore. 

Fu allora che, lentamente, sotto la superficie della pelle Njchlas comprese per la prima volta il limite estremo dell'arte. 

Ciò che la sua arte non sarebbe mai stata in grado di rappresentare: la sensazione di trovarsi davanti agli occhi qualcosa che poteva svanire.

-Per quanto mi sforzassi, non riuscirei mai a dipingere qualcosa di tanto potente quanto il secondo d'amore eterno che una giovane prova per un quadro mai visto-, si disse.

Quella scoperta gli lasciò un sapore dolceamaro infondo all'anima. 

La sorte è una madre caprocciosa: quando decide di mostrare la vera concezione del sublime ai suoi figli, con questa accompagna sempre la consapevolezza di non poterlo mai raggiungere davvero, ma solo sfiorarlo prima che fugga verso l'infinito. 

Quella rivelazione fece comprendere a Njchlas che, per quanto si fosse sforzato da quel giorno in poi, nulla avrebbe eguagliato la perfezione di essersi innamorato di una sconosciuta per il fugace istante di un battito di ciglia. 

Nulla di umano avrebbe mai impresso quel frammento di memoria sulla tela. Era destinato a restargli intaccato nell'anima per sempre, come un tramonto dolente che non cessa mai, anche se le sue tinte purpuree sarebbero svanite nell'oceano della mente, in un incantesimo di rame liquido.

Il fallimento dell'arte sulla vita reale costò all'artista il sospiro più struggente che un uomo possa esalare in un'intera vita.

Fu allora che la giovane sconosciuta si voltò a guardarlo, come se avesse avvertito lo sguardo del pittore trapassarle il cuore. I suoi occhi erano tanto azzurri da ricordare il cielo pulito che si può ammirare in qualche paese del nord o nei ricordi dei bambini. Le labbra piene si espressero in un'unica, dolente richiesta:

<<Aiuto>>.

La ragazza cadde distesa a terra, apparentemente senza vita. 

Una piccola folla si formò attorno a lei. 

Persone attratte più dalle vicissitutdini umane che da quelle che hanno portato alla crezione di un capolavoro appeso per l'eternità. 

A Njchlas sembravano avvoltoi il cui unico interesse era rubarle le ultime briciole d'ossigeno, i ricordi e la giovinezza, sacrificando tutto questo sull'altare della curiosità morbosa che accompagna come un'ombra ogni essere umano.

Ben presto accorse un terzetto di custodi, che nelle loro uniformi scure sembravano angeli rubati all'inferno. 

Tra questi, il giovane riconobbe l'amico Alessandro, che chiudeva il corteo di soccorritori improvvisati.

Subito Njchlas lo raggiunse, attratto da un'incosapevole voglia di far tornare a respirare la sconosciuta.

<<Che le succede?>>.

<<Niente di grave, ci siamo quasi abituati>>.

<<Avete tanti svenimenti qui agli Uffizi?>>.

Alessandro posò lo sguardo sull'amico che gli si stava accovacciando vicino. 

I postumi della sbornia non avevano ancora abbandonato il viso del pittore: la pelle era di una sfumatura verdognola, le labbra incolori come se il sangue avesse deciso di non irrorarle mai più. 

Erano soprattutto gli occhi a colpire il giovane pugile: segnati da occhiaie violacee, sbarrati, tanto grandi da sembrare tazzine di caffè. Le pupille dilatate e lo sguardo assente davano l'impressione che, per quanto l'amico fosse lì, la sua mente vagasse altrove prigioniera di chissà quali turbamenti.

<<In realtà no>>, ammise, <<ma a volte capita. La chiamano "Sindrome di Firenze". Che ironia. Ne hai mai sentito parlare?>>.

Njchals fece no con la testa.

<<Capita che qualcuno sia tanto colpito dalla bellezza di un'opera d'arte da svenire. Personalmente ritengo che sia tutto frutto del caldo afoso che si respira d'estate a Firenze, ma questa è solo una mia idea...>>. 

Njchlas già non lo ascoltava più.

Nel sentire quelle parole, la bramosia gli ottenebrò la mente. 

Desiderò con tutto se stesso possedere quel potere: la capacità di far crollare senza sensi una persona alla visione di una sua opera. 

Voleva che il tormento, la passione e il passato fuoriuscissero dalla tela per colpire come un uragano chiunque si trovasse nei paraggi e che qualcuno arrivasse ad amare un suo quadro al punto da venirne folgorato. Che, agli occhi di chi guarda, le pennellate apparissero tanto luminose da accecarlo, facendo prendere vita alla tela in un caleidoscopio di colori fluttuanti. 

Njchlas capì che quella era l'unica soluzione per annullare lo stato d'impotenza che aveva avvertito -ormai diverse vite prima secondo il giudizio della sua anima- e riuscire finalmente ad afferrare con forza la Bellezza perfetta. 

Fu colto dalla smania morbosa di raggiungerla, ghermirla e straziarla fino a farla sanguinare. 

Cibarsene come se fosse stata il cuore macabro appena estratto dal petto di Dio in persona, finché un volta sazio non l'avrebbe lasciata a terra esanime. 

Bramava di riuscire in una cosa simile, al punto di essere pronto a sacrificare qualsiasi cosa pur di ottenere quel potere.

Dimenticò persino la ragazza distesa sul pavimento freddo e volse lo sguardo verso il muro, dove era affisso il quadro.

Non avvertì nulla.

L'esperienza lo portò ad ammirare il tratto fine e le stoffe pregevomente rappresentate. Notò i volti eterei dei personaggi, le labbra pallide e i movimenti racchiusi in un manierismo congelato per l'eternità. 

Niente di più. Era solo un quadro come tanti altri, un semplice spunto per i suoi bozzetti e per i suoi studi stilistici. Non percepiva nulla di ciò che avava vissuto la ragazza. Eppure, girando la testa per fissarla mentre riprendeva conoscenza, qualcosa di straordinario era accaduto.

Scansò la massa di disinteressati che si accalcavano attorno all'attrazione della mattinata e le prese le spalle.

<<Cos'hai provato?>>, le chiese.

La ragazza, sconcertata per la domanda a bruciapelo, fissò Njchlas sbigottita. I suoi grandi occhi azzurri furono attraversati da un lampo di terrore.



<<Cos'hai provato?>>.



<<Non lo so>>, rispose spaventata. <<E' stato come vedere una gigantesca porta, che per tutta la vita era rimasta chiusa, aprirsi di colpo. Non so come spiegarlo>>.

Abbassò la testa costernata, dispiaciuta di non poter essere utile a quello sconosciuto la cui vita pareva dipendere dalla sua risposta.

<<Stai bene?>>, le chiese in un secondo momento Njchals.

Lei annuì.

Senza che dicesse altro, la ragazza osservò quel giovane stravagante correre verso l'uscita della sala.

***
Njchlas aveva l'impressione di trovarsi in un labirinto magico dal quale non poteva uscire. 

La luce spezzava i vetri delle finestre delle gallerie degli Uffizi, infrangendosi in lame di luce bianca che sembravano trovare pace solo sui quadri del passato che erano appesi alle pareti. 

Correva tra secoli di storia dell'arte senza degnare un'occhiata i suoi maestri inconsapevoli, cercando una via di fuga. 

Il malessere dovuto agli eccessi della sera prima era tornato a farsi sentire e aveva bisogno di respirare qualcosa che non fosse l'aria polverosa di quelle sale. Nella sua mente, li occhi delle figure ritratte all'interno delle cornici dorate erano fissi su di lui, in uno sguardo accusatore che non lasciava scampo a null'altro che un pentimento assoluto per aver desiderato troppo. 

La cupidigua di raggiungere l'impossibile gli pesava sulla coscienza come se avesse appena commesso il Peccato Originale. 

Correva in cerca di una via di fuga per trovarsi al più presto sotto l'azzurro del cielo estivo di Firenze, cullato da una brezza che non ha nome. 

Il fiato corto, il sudore sulla fronte e una fatica millenaria gli gravavano sulle spalle. 

Si sentì vicino a Ercole nelle sue dodici fatiche e altrattanto deciso a portare a termine la sua ricerca: uscire da quel museo in cui assenza, polvere e pregiudizio gli appestavano i polmoni.

Scartò una scolaresca di bambini vestiti con bluse consunte e impiccati in giganteschi fiocchi blu e finalmente si ritrovò schiaffeggiato dai rumori della città: era fuori.

Quella mattina su Firenze svettava un cielo di vernice bianca. Il sole era velato da un manto di nubi, che sembravano aver preso vita da una sferzata di pennello. 

Una luce vaporosa filtrava a malapena, senza dare calore, ma allo stesso tempo in grado di mettere a fuoco i chiaroscuri delle nuvole.

Njchlas si diresse verso una fontana per bere un sorso d'acqua, sperando che fosse in grado di rinfrescargli la testa e i pensieri che conteneva: un turbinio d'immagini, sogni, visioni e sensazioni contrastanti cui non riusciva a dare un inizio e una fine. 

Tra tutte, svettavano due sorrisi lontani come l'alba e il tramonto. Quello della ragazza del museo, col suo volto pulito che portava con sé la promessa di un futuro in grado di cancellare ogni cicatrice. 

Poi il ghigno crudele del lupo visto poche ore prima, mentre vagava a occhi chiusi rinchiuso in una stanza buia. 

Le sue zanne candide che non aspettavano altro che essere macchiate dei peccati di qualche sciagurato.

Un brivido freddo gli percorse la schiena. Respirò a fondo e si diresse verso l'unico luogo in grado di redimerlo.


 Pietro Bazzoli Giornalista scrittore italiano





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