lunes, 14 de mayo de 2018

RACCONTO: VITE PARALLELE - THE NJCHLAS' STORY (FINALE)-


RACCONTO:

Per. Pietro Bazzoli
Illustrazione: Daniele Enoletto 



Dapprima fu solo un'impressione. Nulla di reale, solo il tocco snaturato della fantasia davanti agli occhi. Un sogno incorporeo che fluttua nella mente senza limiti. Poi ciò che stava accadendo davanti ai suoi occhi si fece sempre più reale: Njchlas stava osservando la trasmutazione dell'angelo. Si avvicinò alla mano sospesa a mezz'aria e iniziò a scorgere vene scure come pece solcare l’arto della creatura celeste. Le ali candide stavano lentamente sfumando verso il nero e le morbide piume striate d'azzurro che aveva immaginato, si staccarono una a una. A loro posto spuntarono delle penne scure, dense come una notte senza stelle, capace di liquefare il cielo. Sul corpo dell'angelo avevano iniziato a spuntare peli irsuti e il sorriso che irradiviava il mistero dell'eternità si stava lentamente inarcando, trasformandosi in un ghigno crudele. Infine gli occhi, che lui aveva disegnato chiusi in un sonno tanto lungo che solo un prediletto dell'Altissimo era in grado di concepire, si aprirono fulminando il pittore con uno sguardo carico d'odio. Dalle volte eteree del Paradiso era piombato a capofitto verso le lande fiammeggianti dell'Averno, riverso al suolo, maledicendo il suo creatore per averlo costretto a un destino tanto crudele. 

Osservando da spettatore immobile la caduta verso gli inferi, Njchlas si sentì responsabile della sorte cui aveva inconsapevolmente costretto la sua creatura. 

Quello che una volta era stato un angelo, lo fissava dall'altro lato della tela e sembrava quasi uscirne per trarre a sé il suo creatore, costringendolo a condividere con lui quel destino diabolico. 

Njchlas si sentì attirare da una forza insormontabile verso il disegno, senza riuscire a opporre resistenza. Il medaglione era caldo quanto le fiamme che divampavano nel dipinto, ma Njchlas non se ne rendeva conto. La pelle sfrigolava sotto la camicia, al contatto col metallo incandescente, eppure sembrava che il ragazzo non se ne accorgesse. 

<<Sì>>, disse ad alta voce. 

La dannazione imminente è di certo più sopportabile rispetto a ciò che mi attende qui, pensò. 

<<Prendimi. Prendimi. PRENDIMI ORA!>>, gridò. 

La figura non rispose, ma continuò a fissarlo con astio, aspettando che fosse abbastanza vicino per balzar fuori e recidergli la gola, dissanguandolo. 

Mancavano pochi secondi. 


*** 

Isabella stava correndo al buio lungo la scala di legno, i suoi passi riecheggiavano nei corridoi. Ci aveva messo molto a trovare la dimora del ragazzo, manco fosse stata eretta al centro di un labirinto inespugnabile, anche se nulla dava l'impressione di durare più di quelle scale infinite. Non sapeva spiegarsi il motivo, ma aveva avverti va sotto la pelle la consapevolezza di aver intrapreso una corsa contro il tempo. Quando Don Claudio le restituì uno sguardo di rimando, lei non seppe cosa dire: l'uomo sembrava in attesa di una domanda, una qualunque, ma la sua lingua non accennava a muoversi. Si sentiva sciocca, insignificante e voleva solo che quell'uomo dall'aria buona la stringesse tra le braccia chiedendole se si fosse persa, nello stesso modo in cui si sarebbe rivolto a una bambina. Però Isabella sapeva di non essersi persa. No: lei era esattamente dove voleva essere, a un passo dal toccare il frutto di una curiosità malata e stranamente allettante cui non sapeva dare un nome. 

Era sembra stata una bimba razionale. L'amore per l'arte era l'unica via di fuga che si concedeva, senza però lasciarsene sopraffarre. Nulla nella sua vita era dettato dal caso: ogni giornata era suddivisa da ore che avevano un'etichetta e quell'etichetta era scelta da entità superiori a lei, come si confaceva a una ragazza di buona famiglia in età da marito. Aveva diciotto anni, ma non lo sapeva. Non aveva vissuto neppure un secondo della sua esistenza, escludendo quelle piccole fughe organizzate agli Uffizi verso cui i suoi tutori chiudevano un occhio, e non se ne rendeva conto. Guardare quel ragazzo negli occhi aveva cambiato il suo animo. Come per incanto, la sua vita le era parsa stranamente incolore, grigia, di una tonalità di cui -chissà perché- non si era mai accorta prima. Njchlas aveva dischiuso il suo passato e il suo cuore sbattendo le palpebre, con una semplicità disarmante. Probabilmente una parte di Isabella lo riteneva responsabile di tutto questo, sebbene non sapesse bene di cosa accusarlo. 

<<Sto cercando Njchlas>>, disse a Don Claudio infrangendo quel silenzio freddo e palpabile che sembrava aver condensato l'aria e i minuti attorno a loro. 

<<Strano. Sembra che tutti lo cerchino ultimamente>>. 

<<Chi altro lo cerca?>>, chiese lievemente preoccupata. 

<<I ricordi>>. 

Quella frase gettata a mezz'aria si perse lungo la via, senza che la ragazza riuscisse a coglierne il significato. Isabella decise di non badare alla strana tristezza che attanagliava la voce dell'uomo, così come non voleva guardarlo negli occhi, per paura di essere contagiata da una malinconia liquida che pareva sgorgare dalle sue palbrebe. 

Abbassò il capo riverente, sperando che Don Claudio scambiasse per timidezza il suo eccesso di maleducazione. 

<<E' molto importante che io lo trovi>>, riprese sottovoce. 

<<Per te o per lui?>>. 

<<Non lo so>>. 

<<Hai visto i suoi quadri? Sei una sua ammiratrice?>>. 

<<No. Non ne ho mai visto uno>>, ammise. <<Sono più che altro una conoscente>>. 

Don Claudio cercò di farsi largo tra quei capelli sottili: i tenui riflessi che fuoriuscivano dalla galleria li coloravano di scuro. Era certo che alla luce di un sorriso avessero sfumature dorate ma in quel momento, mentre cadevano sul viso della ragazza, ricordavano di più le venture degli alberi di un bosco normanno. 

<<Entra>>. 

Isabella alzò lo guardo sorpresa. Si aspettava che l'uomo avesse solo due opzioni: dirle dove abitava il ragazzo oppure negarle l'informazione. Quell'invito l'aveva colta alla sprovvista e di certo la cosa non era sfuggita al gallerista. Don Claudio scoppiò in una risata - che alla giovane parve la prima dopo tanto tempo - di un uomo che, per qualche secolo, aveva scordato la naturale risposta a qualcosa di divertente. Si avvicinanò e le mise una mano sulla spalla. 

<<Siediti sulla sedia. Sarò subito da te>>. 

Mentre si sedeva, il suo sguardo si perse lungo le pareti addobbate di quadri. Molti erano a tema religioso, ma dipinti con una sensibilità tanto umana e tormentata da renderli estremamente romantici. Isabella non credeva che ci potesse essere un dose di umanità in un angelo o che il volto di un peccatore potesse assomigliare a quello di un qualunque uomo incronciato per strada. 

Fissò Don Claudio finire la trattativa con il suo ospite, che presto gli strinse la mano radioso indicando un dipinto che stava dietro le spalle di Isabella. La ragazza girò istintivamente il capo e vide l'oggetto che il collezionista aveva appena acquistato. Era una versione della Creazione di Adamo come non ne aveva mai visto prima. Sulla tela era riversato il dolore che significava venire al mondo e l'autore non aveva fatto nulla per nasconderlo. Era chiaro che, per fare un'opera del genere, si dovesse comprendere appieno cosa significasse vivere, morire, semplicemente respirare o aprire gli occhi per la prima volta. Amare. 

La giovane non riuscì a trattenersi: 

<<Chi ha dipinto il quadro che ha venduto?>>. 

Don Claudio le rispose con un sogghigno carico di mistero. 

<<Davvero non lo immagini?>>. 

Isbella sgranò gli occhi e comprese per la prima volta chi fosse davvero il ragazzo che l'aveva salvata dall'abisso. 

<<Mi dica dove si trova, la prego>>. 

Don Claudio era già chino sulla scrivania, intento a scrivere su un pezzetto di carta. Quando ebbe terminato, le tese il foglio, affidando agli occhi tutti gli auguri del caso. 

Lei, impacciata, prese l'indirizzo di Njchlas fissandosi i piedi e poi fuggì subito dalla porta, non prima di aver sussurrato un "grazie" all'indirizzo del gallerista. 


*** 

Un tenue bussare lo ridestò dai suoi sogni e, come un mendicante cieco, tornò alla realtà senza capire dove si trovasse. Il petto gli prudeva, anche se non c'erano segni di bruciatura e il pendaglio di metallo era freddo come il ghiaccio. Diede un'ultima occhiata al disegno: appena abbozzato, c'era il viso di un angelo caduto dagli occhi aperti. 

Njchlas sentì un briviso corregli lungo la schiena. 

Un altro tocco gentile contro il legno rimbombò nella stanza, distogliendolo ancora una volta dai suoi pensieri. 

Afferrato uno straccio, si asciugò il sudore che gli imperlava la fronte e con calma si diresse in direzione dell'uscio. Non appena girata la maniglia, si trovò davanti la ragazza degli Uffizi, mani in grembo e sguardo basso. 

Ci mise un po' a riconoscerla: l'oscurità che ammorbava il corridoio aveva ritratto le sue dita sottili dal volto della giovane, anche se non aveva mollato del tutto la presa, conservandone un pezzo in ombra. 

Njchlas non disse una parola, invitandola silenziosamente a entrare. Lei accettò con un cenno di capo e fece i pochi passi che la dividevano dalla soglia. Per un attimo, Njchlas temette che quel buio di pece allungasse le braccia, traendola a sé per sempre. Fissò il corridioio cercando di scorgere un nemico incorporeo e immaginario, prima di chiudere la porta. 

Isabella non sapeva dove mettersi. Si sentiva nuovamente a disagio, fuori luogo, e si considerava una stupida per non aver minimante pensato a cosa dire al pittore. Si era concentrata così tanto sulla ricerca di Njchlas da non porsi nemmeno il problema di che cosa gli avrebbe detto una volta trovato. 

E poi c'era quella stanza. 

Isabella si chiedeva come potesse un essere umano vivere in un ambiente simile. I muri erano giallognoli, sporchi e impestati di muffa. Il letto era cosparso di macchie, le lenzuola sporche e bruciacchiate in più punti. L'anta dell'armadio era sgangherata, fuori dai cardini, e al suo interno un cumulo di vestiti faceva a botte con la gravità per restare in equilibrio. A ogni angolo, la vista di Isabella incrociava cumuli di libri, tele e polvere. Poi un flebile colpo di vento attirò la sua attenzione verso il lato opposto della stanza, accarezzandole i capelli biondi lungo le spalle, e d'un tratto si accorse dell'esistenza della finestra. Tutto il resto era lurido, ma la vista di cui Njchlas godeva ogni giorno era qualcosa d'indescrivibile. Firenze era ai suoi piedi, servile, pronta a sussurrargli all'orecchio dolci parole che avrebbero ispirato i suoi lavori. La visione, in cui le guglie accuminate dei palazzi trafiggevano il cielo coperto di nuguli biancastri, le rubò il respiro, facendo sparire tutto il resto. 

Njchlas la fissava in silenzio. Sul suo viso non c'era curiosità e pareva che la situazione non lo turbasse affatto, come se non ci fosse nulla di strano nel vedere una sconosciuta fare capolino nel suo appartamento. 

Le quattro mura in cui Njchlas dipingeva i suoi sogni erano abituate a conoscere donne di tutt'altro genere. Altrettanto silenziose, forse, ma di certo molto più sbrigative. Una cosa accumunava le puttane di strada e quella ragazza riemersa da un inferno freddo: nessuna di loro aveva un nome per lui. 

Isabella si girò nella sua direzione, non sapendo bene cosa dire. Njchlas la aspettava, senza fretta. 

<<Ci sono così tante cose che vorrei chiederti>>, disse infine la ragazza. 

<<Da quale vuoi che parta?>>. 

<<Dall'inizio>>. 

*** 

<<Dall'inizio>>. 

Njchlas la guardò sconcertato. 

<<Non puoi essere seria>>. 

<<Certo che lo sono. Non so nulla di te>>. 

<<Lo stesso potrei dire io>>, la rimbeccò il ragazzo incrociando le braccia. 

<<Su di me non c'è molto da sapere. Mi chiamo Isabella. Isabella Del Serafino. Ho diciotto anni e sono sempre vissuta a Firenze. Mi piace l'arte e ho rischiato di cadere nell'abisso, se tu non mi avessi salvata. Tocca a te>>. 

Njchlas soppesò il suo sguardo fragile. Gli occhi limpidi della ragazza parevano simili a una giornata invenrnale, in cui il cielo è tanto azzurro da far male. Spostò il peso da una gamba all'altra, notando come quei due strappi di cielo infranto non si staccassero da lui nemmeno per un istante. 

<<Vuoi davvero sapere tutto?>>. 

<<Assolutamente sì>>. 

<<Perché mai dovrei dire chi sono a una sconosciuta?>>. 

-Che domanda scontata-, pensò Isabella, -tanto scontata che non ho una risposta-. 

<<Perché a uno sconosciuto non devi nulla. Uno sconosciuto non ti giudica, non sa nulla di te. Non può deluderti o tradirti. Esiti solo nel momento in cui gli riveli qualcosa e solo quello ha senso. I tuoi segreti, per me, non esistono; almeno finché non me ne parli. C'è qualcosa di estremamente liberatorio nel parlare di se stessi a qualcuno che non si conosce>>. 

Tacque per un istante. 

<<E anche perché mi ha tirato fuori da un pozzo in cui sarei di certo morta annegata>>. 

Njchlas coprì in silenzio i pochi passi che lo dividevano dalla finestra, passando davanti alla tela abbozzata e coprendone una parte con un panno. Il gesto non sfuggì alla ragazza, che subito gli chiese cosa stesse disegnando. 

<<Preferivo quando stavi zitta e non facevi tante domande>>, sbuffò. 

Lei divenne tutta rossa e ammutulì. 

-E' inutile- si disse l'artista -non me ne libererò fintanto che non le darò qualcosa in pasto. E poi... perché no? Perché sono ricordi sepolti che mi sono giurato di mantenere tali. I suoi occhi, però...-. 

Il giovane artista si appoggiò alla finestra e bevve un lungo sorso di vino dal collo della bottiglia. Senza staccare le labbra dal vetro, allungò la mano e scoprì la tela. 

Isabella si avvicinò a quella bozza che tanti problemi stava dando al suo autore e ne rimase sorpresa. 

<<Ho visto i tuoi lavori nella galleria di Don Claudio. Prima dipingevi i servi di Dio con la sensibilità di un essere umano. Ora abbozzi anime tormentate tra le pene dell'inferno. Perché?>>. 

Njchlas prese fiato, sentendo il peso del medaglione che gli sfregava il petto, sperando che contenesse tutte le risposte di una vita. Le conteneva, ma non erano quelle che voleva dare. 

-Perché la mia è una tra le tante e non riesco a vedere altro-, pensò, ma disse qualcosa di diverso. 

<<Il mio stile sta cambiando. Credo>>. 

Isabella si sposto dall'altra parte, credendo di aver individuato l'angolo meno lurdido del letto. Non sapeva dove appoggiarsi i palmi: aveva la stravagante impressione che, ovunque li avesse appoggiati, avrebbero avuto un'alta probabilità di essere sporcati di tempera, vino o chissà che altro. Quella stanza rappresentava perfettamente l'anima del ragazzo. Non tanto per la trascuratezza, qaunto per il disordine: una piccola cella in cui nulla aveva un posto, dove alcune zone erano così sommerse dal mondo da non essere in grado di respirare. Il caos stava tirando le redini della cella di Njchlas e, allo stesso modo, anche del suo essere. Si chiese ancora una volta cosa lo avesse condotto lì e se il destino avesse cospirato per farli incontrare. 

<<Non sei tu che scegli lo stile?>>. 

<<Spesso nella vita sono le situazioni che scelgono te, non il contrario. La realtà si dimostra una grandissima figlia di puttana a volte>>. 

Isabella ignorò il linguaggio scurrile e non cedette di un millimetro. 

<<Il tuo stile di vita è cambiato molte volte?>>. 

Njchlas emise un sospiro più amaro di quanto non avesse voluto. 

<<Non demordi, vero?>>. 

Lei gli rivolse uno sguardo duro come la roccia e altrettanto affilato. Allo stesso mdoo Njchlas scorse per la prima volta la ferrea volontà di cui era capace Isabella, e si arrese. Fissando Firenze imbrattata dalla luce tenue che stava lentamente cedendo il passo alla notte, lambita dai primi ammicanti bagliori delle stelle, aprì un cassetto chiuso da secoli e si costrinse a ricordare. 

*** 

Il giorno in cui sono nato un vento gelido proveniente dall'Atlantico ha accarezzato il mio volto, segnandomi l'anima. Preferisco credere che sia questa la ragione per cui non ho voluto essere un pescatore come i miei genitori e diventare invisibile giorno dopo giorno sulle spiagge di una minuscola isola al largo del Portogallo. In quel luogo il tempo era scandito dai rintocchi delle stagioni, delle preghiere e dai mercantili che attraccavano sull'isola, una volta ogni due mesi, portando gli articoli più stravaganti, che venivano scambiati in pesce dagli abitanti. 

<<Quindi sei portoghese?>> esclamò Isabella. 

Se Njchals avesse annoverato tra le sue capacità l'innescare la combustione a distanza, di certo Isabella avrebbe iniziato a fumare all'istante. 

<<A quanto mi risulta...>>. 

Isabella lo interruppe nuovamente, dopo aver rimuginato su una questione della massima importanza. 

<<Quindi non ti chiami Njchlas>>, dedusse orgogliosa. 

Njchlas sbuffò. 

<<No. Il nome con cui sono venuto al mondo è Josè Antonio Aldemar>>. 

La ragazza ripetè a bassa voce le sillabe che componevano il vero nome del pittore, scandendole e accarezzandole come se si fosse trattato di un mantra o di una preghiera proibita. 

<<E' un bel nome>>. 

<<Talmente bello che me ne sono disfatto. Lo odio>>. 

Un'aria mortificata colorò di rosso le gote di Isabella. Doveva immaginare che dietro il fatto di farsi chiamare Njchlas non ci fosse un semplcie vazzo artistico, ma qualcosa di più serio. Un segreto che lui aveva accondisceso a rivelerle se avesse dimostrato la pazienza di riuscire ad ascoltare. Invece... Era stata ingenua, sciocca e non aveva recepito i sentimenti del giovane e la difficoltà che aveva nel parlare del proprio passato. Del resto, come si può capire una persona così...? 

<<Posso continuare?>>. 

Isabella mugugnò una risposta d'assenso. 

A quel tempo avevo già capito che non avrei seguito le orme dei miei genitori. Li trovavo amorfi, intrappolati in una quotidianità dai confini troppo stretti e che non riusciva a placare la fame che ogni notte provavamo io e i miei fratelli. Mio padre possedeva una piccola barca su cui potevano viaggiare tre uomini. Uno di loro era mio fratello maggiore. Ricordo che, dopo la prima estate sulla barca, la sua pelle era riarsa dal sole, con chiazze rosate dove si era scorticato battendo contro il legno grezzo. L'acqua di mare gli aveva bruciato l'innocenza e gli occhi, rendendoli costantemente rossi, mentre i capelli puzzavano di sale e salmastro. Non volevo trasformarmi in un automa simile. Non volevo creare una famiglia di morti di fame, con poco pesce in tavola, sprecando i soldi ricavati per comprare il necessario a riparare quelle stupide reti. Non volevo che la donna che avrei sposato, quando avrebbe avuto sessantanni, sul viso avrebbe riportato i segni indelebili di una vita di stenti e l'artrosi per aver sprecato la giovinezza a riparare le corde di quelle dannate reti da pesca. Mi pareva assurdo. I miei genitori non si parlavano mai. Si muggivano saluti. Un muggito al mattino, prima di andare, e uno la sera, quando mio padre tornava abbastanza presto da vedere la sua famiglia di cinque persone ancora sveglia. Erano esseri senz'anima, che avevano generato figli solo perché avevano chi gli attributi, chi il bacino adatti e, con essi, la benedizione imposta da un sacramento in cui non vedevo nessuna protezione. Il giorno del mio battesimo, mi dissero, piansi tutto il tempo. Fu il mio primo atto di ribellione nei confronti di un mondo che aveva regole che non comprendevo e che considerava l'oceano qualcosa di terribile. Erano anime intrappolate nei secoli, che non conoscevano lo scorrere del tempo, che non si accorgevano di morire, distratte dall'incapacità di contare esattamente quanti chili di pesce servissro per comprare ago e filo decenti. Così simili, agli occhi di un bambino, a imponenti statue di sale nerastro, impossibilitate nel riflettere la luce del mattino lasciando che l'irreale assorbisse la loro vita. Vedevano sfilare inermi imbarcazioni di tutti i tipi, decennio dopo decennio, senza accorgersi che ogni volta cambiavano, che portavano con loro una corrente sempre nuova, stili di vita diversi e, nelle voci dei pochi marinai che scendevano a terra, la prospettiva di qualcosa di ignoto ed esaltante. Per gli abitanti di quell'isola l'arrivo dei mercantili era visto in maniera controversa: senza di loro non avrebbero saputo tirare avanti, non per questo li accettavano. Erano stranieri, gente con tratti sconosciuti e quindi da evitare. Per gli abitanti di quell'isolotto senza nome, il mondo era qualcosa di malvagio, non conforme alle Scritture e quindi da aborrire. Persino il mare era malvagio: divorava marinai senza sosta, eppure regalava il pesce su cui si basava la nostra alimentazione. La quotidianità, in quel posto, era un continuo equilibrio tra l'odio e il ringraziamento forzato, sopportando malvolentieri l'incapacità e l'impossibilità di essere abbandonati dal resto dell'universo. Sarebbe piaciuto un sacco, a loro, essere lasciati alla solitudine totale. Nulla avrebbe mai più interrotto la routine funebre che conduceva alla morte, puzzando di carogna ancor prima che di salsmastro. Vedevo i miei prendere parte al loro stesso tragitto e non potevo sopportarlo. A dodici anni dissi che volevo fare il pittore e che volevo un maestro. C'era un vecchio pescatore, un reietto, che vent'anni prima era stato sul continente e che lì si era guadagnato da vivere dipingendo paesaggi e ritratti. Era stato scacciato, non si sa per quale motivo, ed era giunto sull'isola con il cuore pensante come piombo e un fagotto in grembo. Il fagotto conteneva una bambina di qualche mese. Al tempo nessuno lo accolse, nonostante la figlia in fasce, così come nessuno l'aiutò a costruirsi la capanna ai limiti del paese in cui viveva. Chiesero il suo aiuto per ridipingere la cappella della chiesa, ma anche allora ricevette in cambio pesce che ben presto sarebbe imputridito, latte di capra rancido e sorrisi a denti stretti. Volevo andare da lui e imparare a dipingere. La notizia sorprese i miei, ma, non avendo ancora l'età per lavorare in mare aperto, muggirono qualcosa che somigliava a un assenso. Per anni, durante il catechismo che si faceva in chiesa ogni mercoledì, io avevo passato il tempo a guardare a bocca spalancata il capolavoro realizzato dal vecchio. Volevo essere anch'io capace di fare un'opera simile. Più di ogni altra cosa, desideravo che un intero paese s'inchinasse di fronte a ciò che avevo realizzato, credendo ciecamente che fosse prova dell'esistenza di Dio. Già allora ero convinto che l'arte, con il suo modo di conquistare i cuori, fosse una passerella che conduceva al Paradiso. Anzi, molto di più: ero convinto che la mano di chiunque dipingesse fosse in realtà guidata da un angelo silente e incorporeo. Ero abituato a vedere opere religiose e non pensavo si potesse davvero dipingere altro. Un'assurda convinzione è l'unica eredità che mi ha lasciato l'ammasso di roccia, insieme a preghiere stantie, anche se col tempo iniziai a credere che non fosse un angelo a guidare la mia mano... 

Njchlas si fermò. 

-Ora lo so per certo-. 

La prima bozza che completai ritraeva un paio di buoi sgozzati e lasciati morire al confine di un campo che era appena stato arato. Erano stati utili al contadino finché avevano retto, poi, esausti, l'uomo gli aveva reciso la giugulare con una mannaia senza pensarci. "Così avrebbe avuto carne per l'inverno", spiegai al mio maestro sconcertato. In lontananza, sullo sfondo, avevo dipinto una chiesetta bianca, così simile a quella in cui mi recavo accompagnato dai miei famigliari ogni domenica per essere benedetto. "Maestro". Non seppi mai come si chimava davvero. Il proprio nome è qualcosa di tanto intimo che lo sbattiamo in faccia non appena ci presentiamo. Dovremmo preservalo, invece, come un tesoro: è l'unica parte di noi che ci identifica, la risposta più immediata alla domanda: "chi sono io?". Si può vivere senza un arto. Senza la vista o senza voce. C'è chi è persino senza cuore, eppure ognuno di loro ha un nome. Quel vecchio non mi disse mai il suo, si accontentò per anni di farsi chiamare "Maestro". Quanta fatica, per lui. Ricordo che, quando intrapresi l'inizio della telemachia che mi condusse a essere Njchlas, mentre il tramonto lambiva il mare piatto, infuocandolo con le goccie vermiglie nate dal dissanguamento del cielo contro i tetti accuminati del paese, non sapevo cosa gli avrei detto. Ebbi molto tempo per pensarci: il vecchio non mi aprì la porta per tre giorni, lasciandomi fuori. 

<<Avevi solo dodici anni? Ma è crudele>>, esclamò Isabella. 

<<Tu dici?>>. 

Njchlas pareva sorpreso, come se anche lui avrebbe fatto la stessa cosa. 

<<Perché, tu avresti fatto lo stesso?>>. 

Il ragazzo ci riflettè sù. 

<<Non credo>>, disse poi, <<Del resto, ti ho lasciata entrare in casa mia>>. 

Non morii di fame solo perché sua figlia, che aveva qualche anno più di me, mi portava di nascosto da mangiare e un po' d'aqua in una terrina d'argilla polvernsa. Quando mi aprì la porta, ero riverso davanti all'entrata, esausto. Il sole mi aveva dato alla testa e non mi accorsi subito che la porta si era finalmente spalancata. Sussurravo parole inconsistenti, mentre le labbra erano intrise di terra e sabbia. Mi chiese solo cosa volessi ed io, nell'unico momento di lucidità, gli risposi con un filo di voce che volevo essere un pittore. Mi prese in braccio e mi portò in casa; mentre attraversavo la soglia il sonno ebbe la meglio. Fece di me il suo allievo, un ritrattista di paesaggi morenti, di coste su cui esplodono le onde, di nuvole infinite che si gettano in un mare color del vino. Stranamente, qualsiasi cosa mi spiegasse, la capivo subito. Presi a fare ritratti per i marinai, che mi pagavano qualche moneta, e cominciai a portare soldi a casa nel modo più decoroso che conoscessi. Gli anni passarono sospinti dal vento che fa cozzare la spuma salata contro gli scogli, permettendole così di raggiungere il blu compatto di cui è fatta la notte. Quando non dipingevo, vedevo la figlia del mio maestro. Eravamo entrambi ragazzi fragili, costretti dal destino a respirare un'aria che ci lacerava i polmoni e che aveva sulle nostre anime lo stesso effetto della pece bollente. Era l'unica compagnia che potessi avere. 

<<Cosa amavi di lei?>> 

<<Di lei amavo i suoi sogni, una semplicità capace di scrutare mille tramonti emozionandosi ogni volta e lo sguardo che sembrava racchiudere dentro di sé il futuro in un battito di ciglia. Però questa non è una storia d'amore>>. 

"Gli amori sono albe incontrastate, che sembrano non finire mai. Invece portano solo tramonti cremisi, che brillano nel sangue di cuori spezzati", mi disse una volta Lyla. Si chiamava Laura Silva des Aguas. Era il nome della madre per essere esatti, quindi non il suo. Era l'insieme di lettere che identificava la donna che l'aveva messa al mondo, abbandonata e verso cui il maestro proiettava ogni colpo di pennello. Non amava Laura per ciò che era; amava Laura che li aveva abbandonati entrambi. "Siamo identiche. Per questo non ne sento la mancanza: ogni volta che mi guardo allo specchio, vedo il riflesso di mia madre e mi sembra sia qui vicino a me". Era un concetto troppo astratto per una bocca affamata di carne adolescenziale come la mia. Avevo diciassette anni; lei diciannove. Un giorno mi portò in casa, di nascosto dal padre, e si mise davanti allo specchio. Indossava un lungo vestito bianco, liso e sporco di sabbia, che le scendeva fino alle caviglie. Io la guardavo riflessa, senza accorgermi della differenza. Quando fece cadere il vestito ai suoi piedi, però, notai subito le sottili cicatrici che le percorrevano le cosce. Lei seguì il mio sguardo fino al suo ventre piatto, poi piano iniziò a sfiorarsi la pancia. Scese lentamente verso il basso, il viso intrappolato per metà dall'oscurità che albergava nella stanza, dovuta al fatto che la candela non bastava a contrastare la notte della luna ormai alta. Le sue dita si fermarono sull'inguine, peccaminose al punto da impedire a un ragazzino di trovare un paragone se non nelle proprie fantasie più recondite, per poi fermarsi definitivamente tra le gambe, coprendo le sottili venature rosse che si era inferta da sola. 

"Secondo te prova dolore?". 

"Chi?", chiesi senza capire, boccheggiando. 

Girò la testa verso lo specchio e fissò il suo riflesso con tutto il disprezzo di cui un essere umano è capace. 

"Lei". 

Mi mancava l'aria, l'afa che si respirava mi dava alla testa e la situazione appariva tanto irreale, sospesa tra luce e tenebra, da impedire al mio cervello di comprendere. Sentivo la mente leggera, che galleggiava in quel momento pressoché onirico così simile al frangente in cui si gravita prima di addormentarsi. Mi gettò a letto, con una dolcezza a cui non riuscivo a dare un nome. Ricordo solo che non imparai mai come si sveste una ragazza, ma rammento la rabbia e l'abbandono che mi trasmsre Lyla mentre affondava le sue unghie nella mia pelle. Chissà perché le sue labbra avevano lo stesso sapore del mare. Quando sentimmo suo padre salire le scale, uscimmo entrambi dalla finestra scappando a piedi nudi sulla sapiaggia. Lei si era appena rivestita e il sudore faceva sì che il vestito le si appiccicasse addosso, come una seconda pelle. Vedevo i suoi capelli al vento, le gambe veloci e i suoi seni sodi stagliarsi contro il tessuto, infrangendo i raggi di luna che le battevano addosso. Le gocce di sudore che sembravano perle inondate dai flebili fasci provenienti dal firmamento. Ci fermanno poco dopo. Aveva un posto segreto, mi rivelò, proprio dietro alla rimesse delle barche, sul limite più alto degli scogli. Tra di essi aveva nascosto una coperta, su cui si sedeva o che usava per combattere le folate marittime "a seconda dell'umore", mi aveva detto. Ci spogliammo in fretta, fiduciosi e impertinenti come possono esserlo solo i ragazzi che non hanno mai saputo prima cosa sia la passione e la paura di svanire. La sentivo sotto le unghie, tra le dita, dietro agli occhi. Era il timore di essere sommersi dall'acqua e venirne risucchiati, svanire con essa e non tornare più. Però c'era lei: solo lei mi teneva ancorato a terra perché se no, ero sicuro, non ci avrei messo molto a scomparire tra le onde. Andò diversamente: suo padre non ci mise molto a trovarci. Lo vidi all'ultimo istante, scostando il corpo di Lyla fremente sopra di me. Quelli furono gli unici anni di vita che era stat in grado di donare e li diede a me, a me solo. Il mio maestro aveva i piedi zeppi di sabbia, come i nostri, il volto teso e inespressivo, coperto da una maschera di rabbia. Non vidi il picchetto che teneva in mare. Ogni pescatore ne ha uno: serve a tirare le reti in barca e ad avvicinarsi al molo durante l'attracco. Mi resi conto troppo tardi della furia con lui lo fece volare contro il capo di Lyla. La ragazza, invece, quasi non se ne accorse. Forte, diretto alla tempia, come un colpo che sa come si fa a uccidere. Vidi in un turbinio di secondi immobili il sangue uscire dagli occhi e dal naso, rigandole le guance. Rimase ferma un tempo che a me parve simile alla definizione di "per sempre", prima di vedere il suo ultimo sospiro perdersi in alto, verso una volta oscura e carica di stelle per poi cadere in mare. I sogni che Lyla serbava nelle pieghe di quel vestito di lino erano sassi in tasche inacessibili, e la trascinarono a fondo, velocemente, senza che nulla potesse permettermi di vedere ancora il suo viso. Da allora, ogni notte, un ricordo intriso di rosso bazzica in silenzio i miei pensieri quando la stanchezza soprassale. Mi aspetta sull'altra riva di un fiume senz'acqua, eppure lambito di un liquido nero, simile al catrame. 

Una nave sarebbe partita poco prima dell'alba, lo sapevo perché uno dei marinai a cui avevo fatto un ritratto me l'aveva detto qualche giorno prima. Corsi a casa, presi i pochi risparmi che avevo da sotto il letto e me ne andai per sempre. 

Il mio arrivo in Italia è attorniato da lunghi sonni dovuti all'alcol e dall'odore putrido della stiva. Il rollio della nave mi causava conati intermittenti, male che cercavo a più riprese di sopprimere servendomi di una scorta di liquori che avevo scovato, quasi la promessa salvifica di farcela a terminare quel viaggio in seno a Caronte in persona. 

Quando Don Claudio mi trovò lungo disteso sul ciglio di una strada, stringendo la miriade di ritratti che avevo fatto di lei, procò a comprarne uno, credendomi un accattone. Io lo ripagai di uno sguardo carico di dolore e, prima di svenire, scoppia in lacrime. Mi svegliai giorni dopo. Il medico diceva che non avrei subìto danni permanenti a causa della protratta dieta a base di alcolici, ma che dovevo stare a riposo. Don Claudio, in quel frangente, si dimostrò molto più del padre che sentivo di non avere mai avuto: mi aiutò, osservò a lungo i miei disegni e, una volta deciso che sarei entrato a far parte della sua scuderia, mi presentò a Donna Angela, pagando diversi mesi in anticipo. Denaro che, mi spiace ammetterlo, non restitutii mai. Per settimane non proferii nemmeno una mparola, il mio animo era ancora in mare, disperso e sconguassato da una tomenta che preannunciava una furia interminabile. Don Claudio mi prendeva con sé, anonimo e amorfo com'ero, cercando di risvegliare la carte curiosa del mio essere mostrandomi i luoghi più belli di Firenze. Amante del bello e dell'arte, credeva che una mssiccia dose di fine archiettura italiana potesse lenire qualunque ferita la vita avesse deciso di infliggere a uno sciagurato come il sottoscritto. Ancora oggi non so descrivere il momento preciso in cui sentii smuoversi dentro di me un incredibile attaccamento al presente. Mi accorsi solo di voler creare nuovi ricordi, relegando il passato in un racconto che non avrei più regalato a nessuno. Quando ciò avvenne, ero nello studio di uno degli artisti di Don Claudio. So solo che, mosso da un desiderio irrefrenabile, presi un pennello e iniziai a dipingere su un quadretto lasciato in disparte. Con pochi tratti decisi, raffigurai il volto della donna che avevo amato come nessuno prima di allora, e mi abbandonai a un pianto di liberazione senza vergognarmi di essere in mezzo ad altra gente. 

Solo allora compresi che José Antonio Aldemar era morto nella tratta sulla nave o in una strada ignota, lasciandosi indietro ricordi dolorosi, la promessa di una vita mai iniziata e ogni grande speranza che un giovane può immaginare. Dal momento in cui compresi un simile passaggio, divenni per tutti Njchals. Un nome che avevo rubato a una delle riviste straniere abbandonate sul ponte, quando di notte sgattaiolavo sopracoperta per prendere un po' d'aria pura. Divenni per tutti Njchals, soprattutto per me stesso. 

Isabella si trovò sbigottita. Mentre il ragazzo ritagliava ricordi nel tentativo di tessere la narrazione di una vita, per lei il mondo era scomparso. Nella sua immaginazione, che vibrava al ritmo delle pause di circostanza di Njchals, quasi il tentativo di comprendere appieno un vissuto irreale quanto la bruma all'alba, lei era lì. Era al suo fianco quando scappava nella notte; era al suo fianco quando prese in mano per la primissima volta un pennello. Era al suo fianco con l'amore perduto e sulla nave in burrasca che lo portò nel Vecchio Mondo con la speranza di costruirne uno nuovo. Era sempre stata lì, muta, invisibile, ma nel suo cuore non avrebbe più permesso che qualcosa di lui sarebbe accaduto senza la sua presenza, sicura di aver finalmente accettato la sua collocazione in questa vita. Difficile, certo, ma vera. Mentre il giovane lasciava che le parole si inseguissero nell'assurdità del passato, a Isabella parve di udire lo scatto tipico di un lucchetto che cede alla morsa della chiave perfetta. Un suono lontano, ancestrale ed eterno allo stesso tempo. La sensazione, imperturbabile, che finché Njchlas gliel'avrebbe concesso, lei ci sarebbe stata. 

<<Andiamocene. A Venezia. Da lì in poi, verso qualsiasi meta ci permetta di lasciare indietro ogni cosa, tranne noi>>. 

Njchlas la fissò un istante tanto lungo da sembrare eterno. 

<<Cosa?>>. 

<<Partiamo. Andiamocene. Lasciamo tutto indietro: passato, presente, dolori, delusioni. Qualsiasi cosa. Scegli un futuro incerto con me piuttosto che tutto il resto>>, prese fiato, cercando la forza di pronunciare la frase successiva, <<Ti prego>>. 

<<Perché Venezia?>>, chiese invece. 

Isabella non riuscì a trattenere una sformia di atroce delusione. Chiuse gli occhi nella speranza che un respiro profondo arrestasse i battiti incessanti. 

<<Ho uno zio a Venezia. Può ospitarci qualche giorno e poi possiamo andare dove desideriamo. Senza confini>>. 

Nel suo cuore, nonostante non volesse ammetterlo nemmeno a sé stesso, anche Njchals percepì la dura roccia infrangersi al dolce suono di una domanda tanto semplice - e infantile, irrealizzabile, assurda - quanto quella posta da Isabella, una ragazza che conosceva appena. Ma se il destino, o chi per lui, aveva deciso di farli incontrare, allora non avrebbe avuto senso negarsi. 

Sui tetti di Firenze aleggiava una leggera brezza, che face capolino dalla finestra aperta. Accarezzò i due, unendoli in un abbraccio che portava con sé la promessa di un futuro da scrivere e tutte le loro grandi speranze. 

Prima che potesse rispondere, lei si avvicinò al suo viso e, senza dire nulla, lo baciò. Si abbandonò completamente a quel bacio, carico di rimpianto e sinonimo della remissione di ogni peccato, o memoria, che entrambi covavano dolorosamente infondo all'anima. 

<<Andiamo>>, disse Njchlas. 

*** 
Il giorno dopo presero il primo treno del pomeriggio diretto per Venezia. Non partirono la mattina, perché Njchlas andò da Don Claudio per scusarsi, salutarlo e negargli la verità. Non gli disse dove era diretto, nè perché. Gli disse solo che avrebbe avuto presto sue notizie. 

Con lo sguardo mesto che solo un padre può avere nel congedarsi da un figlio, il gallerista lo abbracciò, sicuro che il sangue, a volte, rappresenta solo una scusa banale. Lo stesso con fece con Donna Angela, guardandola dal fondo delle scale con una valigia in mano. Lei lo raggiunse e strinse in seno, lanciandogli l'ultimo sorriso severo. 

Njchlas non seppe mai quale fu la scusa usata da Isabella. Non gli importava e lei, di rimando, sfoggiava il più bel sorriso che potesse indossare. Njchlas si stupì del calore che provava infondo al cuore ogni volta che Isabella increspava le labbra: erano gesti fatti di felicità innocente, spensieratezza e malinconico abbandono nei confronti della speranza, aspetto che i suoi anni non meritavano. Giurò che non avrebbe più permesso a quel sorriso di svanire, avrebbe fatto di tutto affinché le restasse indelebile sulle labbra. Era come riceve un raggio di sole nel bel mezzo di una tempesta, che giunge nel frangente più cupo facendosi strada tra la coltre di piombo densa d'elettricità. 

La vita, molto più spesso di quanto non sia lecito credere, fugge su binari impossibili alla stessa velocità di un treno che non compie fermate intermedie. Per Njchlas e Isabella era così: sconosciuti, eppure sicuri di trovarsi nel momento giusto al posto giusto, con la sensazione di imbarcarsi per un deja-vù, una sensazione tanto perfetta che viverla una sola volta non sarebbe bastato. 

Erano seduti l'uno di fianco all'altra, stretti in un abbraccio cullato dal lieve ondeggiare della carrozza e dal rumore delle gocce di pioggia, che avevano iniziato a puntellare i vetri oltre cui sfilava l'esterno. Il treno sferruzzava dolcemente sui binari, e gli scompartimenti che componevano il lungo serpente d'acciaio erano austeri: stretti posti da sei persone intagliati nel legno; porta pacchi il cui aspetto testimoniava anni di lotte contrastando la forza di gravità e una coppia di tendine sgualcite. Nonostante l'aspetto scialbo, per entrambi quello era il posto perfetto. In silenzio, Njchals sentiva il respiro caldo di Isabella, i suoi occhi chiusi e, se si fosse concentrato, probabilmente anche il rumore dei suoi sogni. Non si chiese nemmeno per un attimo come avrebbero fatto a sopravvivere: avvertiva nell'anima la calda consapevolezza che, finché i loro cuori avrebbero continuato a battere all'unisono, nient'altro sarebbe importato. Tutta la rabbia accumulata negli anni, l'odio e i rimpianti stavano lentamente svanendo, seguendo la pioggia per bagnare un terreno che presto si sarebbe asciugato. 

Fu proprio mentre fissava distratto il finestrino costellato di lacrime cielesti che lo vide. Non era certo fosse reale. Il tempo sembrava sospeso nel vuoto e anche il paesaggio apreva tanto ripetitivo da fargli credere che il treno girasse in tondo, senza avanzare mai. Prima poche goccie, a cui si aggiunsero le altre, formarono il volto di Dumal, con i suoi occhi d'inferno e un sorriso capae di ghermire l'anima in eterno. 

Njchlas si destò dal sonno. Il ciondolo di Dumal era caldo, ma non se ne rese conto. Senza accorgersene, doveva essersi addormanetato insieme a Isabella durante il tragitto. Spaventato, ansante, si guardò intorno con gli occhi spalancai nell'assurdo tenativo - lo sapeva - di scorgere ancora oltre il vetro appannato i linementi della persona da cui stava scappando più che da ogni altra cosa. Isabella avvertì subito che qualcosa non andava. 

<<Stai bene?>>. 

Njchals non rispose. 

Prese tempo, alternando cenni d'assenso a grandi respiri. 

<<Sì, solo un brutto sogno>>. 

<<Guarda, siamo quasi arrivati>>. 

Il ragazzo si sporse come potè per catture con lo sguardo un briciolo di ciò che li attendeva. Venezia, la città di poeti, misteri e maledetti, si stava avvicinando. Le sue acque torbide parevano pronte a inghiottirli e le luci della Laguna ricordavano una danza di spettri da cui non sarebbero mai sfuggiti. 

A Venezia, pare che anche i treni siano destinati a ormeggiare, lasciando che non siano i freni a mettere fine alla corsa, bensì le mosse esperte di gondolieri invisibili posti sui tetti dei vagoni. Un mare di guglie e arebeschi s'infrange sullo specchio nero della laguna senza fare rumore: le anime catturate dallo specchio d'acqua nerastra sono reduci da esistenze vissute all'ombra di palazzi perenni, destinati a seguire il via vai di addii pur non cambiandoli mai. Fu questo il primo pensiero di Njchals nel vedere una città di fumo e specchi, che li accolse all'imbrunire senza nascondere il suo volto proibito, quando le ombre si allungano in attesa della notte. L'artista di fece carico di entrambi i bagagli e seguì Isabella nella lenta processione che li avrebbe condotti nel baratro, mentre un tramonto porpureo attanagliava il dedalo di santi e madonne che compongono le diverse facciate di Venezia. 

Marco Del Serafino era un uomo che aveva superato la cinquantina da qualche anno ormai, ma con dignità e senza darlo a vedere. La barba color ferro, come i capelli stretti in una coda di cavallo, era curata all'inverosimile. Sembrava una statua classica che, dal marmo, aveva subìto lentamente la trasformazione in carne, ossa e sangue, ma non del tutto. Il viso scolpito e la stazza dell'uomo recavano ancora gli ultimi scampoli della pietra lavorata abilmente con una tecnica irripetibile. 

<<Isabella>>, disse allargando le braccia per accogliere la nipote. 

<<Zio>>, rispose lei. <<Grazie dell'accoglienza improvvisa>>. 

Lui le rispose senza aver bisogno di dire parole, in un gesto che raccoglie tutta la felicità del mondo. 

<<Chi è il giovane che ti accompagna?>>. 

<<Un pittore di Firenze, zio. Si chiama Njchlas>>. 

Njchlas strinse la mano all'omaccione dall'aspetto imperturbabile, scoprendo che riservava anche per lui il medesimo affetto istantaneo. 

<<Prima volta a Venezia?>>, chiese. 

<<A dire il vero, sì>>. 

<<Allora permettimi di raccontarti qualcosa della città dove sono nati gli avi di Isabella. Prima però sediamoci, ceniamo e viviamo un momento di serenità domestica. Dopo le fatiche del vostro viaggio non vi meritate di meno>>. 

Quello della famiglia Del Serafino era un palazzotto incassato a fatica tra i canali e il cielo. La muffa aveva intaccato buona parte della facciata, testimoniando con macchie verdastre il passaggio del tempo e la lenta perseveranza che solo un sentimento di conquista porta con sé. C'erano diverse vetrate, che inondavano le stanze interne di una piacevole luce candida a qualsiasi ora del giorno, e nel complesso appariva agli occhi di Njchals come il perfetto connubio tra la testimonianza di un passato illustre e la decadenza che si deve affrontare nel presente. I muri e il pavimento carichi d'umidità parevano sul punto di scoppiare, come il saio di un grasso monaco che ancora non ammette la propria mole, e solo il fatto che erano stretti da altri due palazzi impediva loro di collassare definitivamente. Stando attenti, si avvertiva il grido di dolore che la pietra lanciava al mondo, in una silenziosa richiesta d'aiuto che nessuno era in grado di accogliere. 

La cena fu piacevole per tutti e tre: candelabri di pregevole fattura reggevano candele tanto bianche da sembrare una preghiera; posate d'oro, memori degli splendori trascorsi e un valessame così fine da andare in frantumi col solo peso delle pietanze. La sala era accogliente, spaziosa e i finestroni da cui si poteva scorgere la laguna erano sormontati da pesanti tengaggi azzurrati. L'abitazione, pensò Njchlas non appena riuscì a visitarla per intero, era troppo grande da condividere con nessun altro che se stesso, servitù esclusa. Njchals aveva scoperto che lo zio di Isabella viveva solo ormai da diversi anni, da quando sua moglie era morta a causa di un male innominabile. Nessuno seppe cosa le stesse succedendo, finché non fu troppo debole per alzarsi dal letto. L'ignoto male che le aveva rapito il cuore non aveva nome e, velocemente com'era comparso, così se ne andò, portandosi via la sua anima fresca e tutte le lacrime che l'uomo poteva versare. Da quel giorno, Marco Del Serafino non volle più altra compagnia se non i libri, di qualsiasi genere. Senza eredi e isolato dal mondo, danzava imperterrito aspettando che la solitudine cedesse il passo alla morte. 

<<La prego>>, comincò Njchals in un eccesso di buone maniere che non gli apparteneva, <<racconti qualcosa della sua città, come aveva detto>>. 

<<Vuoi sapere cosa si cela oltre lo sguardo di chi passa per le Calle?>>,chiese Marco Del Serafino con tono misterioso. 

<<Mi farebbe molto piacere>>. 

Isabella strinse la mano di Njchals da sotto il tavolo, regalandogli uno sorriso di ringraziamento e la silente promessa di una storia irripetibile. 

<<Bene allora>>, cominciò il padrone di casa, <<L'esistenza di un uomo si misura in base a tre componenti: quali moti abbiano attraversato il suo cuore; quali speranze siano state infrante lungo il percorso e quali emozioni abbia suscitato la vista del mare dal Ponte di Rialto. 

Io, fortunatamente o meno, in Laguna ci sono nato. 

La mia è una città diversa da qualsiasi altra, come non se ne vedono in milioni di respiri, ma è meglio non nominarla: è capricciosa, volubile e vigile a chi la chiama con imprudenza. Si presenta claustrofobica tra le vie, dove si diramano rigagnoli torridi e verdastri, e si lascia sorreggere da muri che paiono cadere addosso a chi li costeggia. L'incauto viaggiatore non sa più dove guardare e fugge seguendo il profumo dell'aria, sperando lo porti al riparo. Così ritrova il respiro tra le luci di una San Marco circondata dalla laguna che pare inghiottire la città stessa, districandosi nel vano tentativo di spegnerne i tenui bagliori per sempre. Quante volte, nei miei ricordi di bambino, ho lasciato che quell'acqua salmastra mi sfiorasse, senza sapere quali mostruosità si nascondessero tra le alghe. In qualsiasi altra città avrei passato una gioventù serena, senza pericoli, rimorsi o rimpanti. Invece, trascorsi il tempo che mi è stato concesso tra le Calle, senza abbandonarle mai. Nonostante tutti i loro segreti. Segreti che si fanno sentire solo quando i riflessi porpurei del cielo, al crepuscolo, tingono di vermiglio le acque in cui s'immergono migliaia di anime ogni giorno. Di notte, infatti, ombre scure si levano dai canali morenti. Serpeggiano al ritmo scrosciante delle piccole onde che battono contro le gondole ormeggiate, come se, solo allora, le persone lasciassero il posto a fantasmi tinti di pece. Sono esseri che hanno sacrificato i propri ricordi centenari al chiaro di luna, figli reietti di una città severa, inviati dalla madre stessa per punire chi abbia osato prendersi gioco di lei, deriderla o anche solo pronunciare il suo nome. I sussurri di queste entità si odono già al calar del sole, quando le ultime lame di luce si tuffano nell'orizzonte dissanguando l'aqua, per lasciare il posto a un vento che rieccheggia tra i vicoli stretti, in un'eterna litania. Chiedete a chi ha passato, alla stregua del sottoscritto, decenni tra i canali: potranno confermarvi che di notte le vie si animano di presenze che non appartengono a questo mondo, né all'altro. Attendono nell'oscurità, lontane dal chiarore delle lanterne sospese nel vuoto, accecate da quella luce ramata che significa salvezza. Aspettano che qualche sprovveduto metta il piede in fallo, che entri per puro caso nel loro territorio, per agguantarlo. Lunghe dita avvolgono lo sventurato, impedendogli di chiedere aiuto, tappandogli la bocca per strappargli la vita dalle viscere e costringerlo a un tiepido torpore, che sfuma in un sonno senza tempo. 

Mi è capitato di incontrare una giovane coppia, una volta, intenzionata a trascorrere tutta la notte in giro, per assaporare quel misto di romanticismo e magia unico al mondo. 

-Non pronunciate il suo nome!- mi raccomandai. 

Il mio sguardo, di certo folle e incomprensibile, li spaventò a tal punto che i due corsero via, voltandosi più volte per assicurarsi che non li stessi seguendo. Io alzai appena il braccio, la bocca ancora aperta sull'ultima eco del mio avvertimento. Chinai il capo sconfitto, rincasai e non chiusi occhio fino all'indomani. Temevo di aver lasciato che due vite finissero in pasto agli spettri della città, a saziare il loro appetito. 

Solo all'alba, sentendo il latrato disperato della sconfitta, seppi che i due innamorati erano stati risparmiati>>. 

Njchalas rimase a bocca spalancata. Non credeva che di notte si potesse nascondere tanta magia oltre le gondole illuminate dalle lampade a petrolio. 

Forse dovevano fermarsi lì. Forse, almeno per poco, avrebbero potuto respirare l'insieme di salsedine, ricordi dolorosi e poesia che fanno di Venezia una visione sospesa tra relatà e immaginazione. Fu con un'idea simile che andò a dormire, concedendosi prima il lusso di fissare il viaggio immobile dell'acqua nel canale sotto la finestra della sua camera. Anche la sua camera ripercorreva le linee generali della magione: troppogrande ed estremamente vuota. Il letto a baldacchino, che in un'altra stanza avrebbe occupato buona parte dello spazio disponibile, lì dentro non era altro che un soprammobile irrilevante, appartenente - per vocazione e addobbi - a un'epoca ormai dimenticata. Njchlas non aveva ancora ceduto il passo al sonno, che iniziò ad avvertirlo. Una sensazione melliflua, in grado di richiamare a sé il lato più oscuro e torbido del giovane si era impossessata di lui, senza lasciarsi scampo. Inizialmente non comprese di cosa si trattasse, ma avvertì come se le sue vene si rimpissero di mercurio, immobilizzandogli persino i pensieri e, con essi, le sue grandi speranze. Non percepì che proveniva da medaglione di Dumal, svrigno e testimone di un accordo inviolabile. Era il gelido presagio che nulla di ciò che stava progettando per il futuro si sarebbe mai concretizzato. 

*** 
Era tutto bianco. Nel sonno era comparso d'innanzi a lui. Dumal, nei suoi abiti d'alta sartoria e con impresso uno sgaurdo imperscrutabile, che si allontana dal peccato pur essendone immerso, stava ritto al centro di una distesa immacolata. 

Era tutto bianco. 

Njchlas si sentì spaesato: non si rendeva conto di dove fosse, di cosa stesse facendo disteso su un pavimento che si confondeva col tetto sconfinato di una stanza inesistenze, in bilico sopra il mondo reale e non ancora a contatto né col cielo né con l'inferno. Una sconfinata landa impalpabile dilaniava gli occhi di Njchlas e comprese di trovarsi in un limbo senza via di scampo. Non sapeva come aveva fatto a giungere in quel luogo e, cosa più grave, non aveva la minima idea di come uscirne. L'unica consapevolezza, che maturava pian piano nel cuore che avvertiva fermo, era che ben presto avrebbe dovuto confrontarsi con un essere ultraterreno. 

Si maledisse, per la prima volta. Maledisse la sua cupidigia, la sua giovanile volontà di toccare la perfezione, il sublime che l'aveva spinto oltre ogni limite, cedendo alle lusinghe in virtù di una promessa che aveva la certezza che si sarebbe compiuta. 

- Sarebbe stato meglio che Njchlas non avesse mai visto la luce, - pensò - e che lo lasciassi a un altro sciagurato nello stomaco di una vecchia nave -. 

Dai pochi momenti che aveva passato con Isabella, capiva che lei sarebbe stata di dargli altrettanto, allo stesso prezzo, ma senza imposizioni. L'ispirazione necessaria per raggiungere le glorie dell'eternità erano conservate sia nel vendere la propria anima senza ritegno, che nel donarla consapevolmente a un'altra persona. Sfortunatamente, la sua decisione era già stata presa e non potè non pensare al rombo infernale avvertito nell'istante esatto in cui il suo animo fu venduto. Ora, le conseguenze erano giunte a riscuotere quanto dovuto, ben prima che l'idea della fuga si concretizzasse. 

<<Parigi val bene una messa>>, ironizzò Dumal. 

<<Parigi?>>, domandò Njchlas. Non si aspettava un approccio tanto disinvolto da parte del suo mecenate. Aspettava la furia che solo il reietto del Cielo poteva scatenare contro i dissidenti, per rinchiuderli in un mare di fuoco dove le lacrime evaporavano senza nemmeno il tempo di bagnare le guance. 

<<La piccola Isabella sogna Parigi. Quanto romanticismo in una ragazza che ha intravisto per la prima volta la dolcezza dell'amore: pensa forse che basti nascondersi all'ombra della Tour Eiffel per sfuggirmi. La gioventù regala attimi di estrema vitalità e, con loro, l'incoscienza delle proprie azioni. Se ti può consolare, sei riuscito a mettere un freno al dolore incessante che Isabella prova in un recondito angolo dell'anima da quando ha memoria. Sei riuscito nell'impresa di attenuare, anche se per poco, il brusio di sottofondo che l'accompagna perennemente. A volte lo avvertiva, altre riusciva a far finta che non ci fosse, eppure era sempre con lei. Dentro di lei. Ora sarà anche peggio>>. 

Njchals sorbì il sermone introduttivo stando disteso a terra, ancora incapace di alzarsi. Il solo fatto che un essere Dumal parlasse così di Isabella gli dava il voltastomaco. Ogni volta che pronunciava il suo nome era come se macchiasse senza ritegno la purezza che la ragazza sprigionava. 

<<Tu sai perché ti ho portato qui. La stessa consapevolezza che hai appena maturato nel cuore ti dà il benvenuto nell'età adulta: a volte non si può tornare indietro e le scelte prese sono come un marchio a fuoco sul petto. Sarebbe il caso di brindare a un così importante evento>>. 

Dal nulla comparvero due calici di cristallo e un'ampolla contenente un nettare dorato. 

<<Se te lo stessi chiedendo, è ambrosia. Prelibatezza degli dei antichi e unico elemento che abbiamo sottratto alla mitologia. È deliziosa, quasi meglio del sangue. A volte la fantasia umana supera persino la nostra>>, ammise con un ghigno. 

Il bicchiere, percorrendo la distanza che c'era tra i due interlocutori, si fermò a un palmo da Njchlas. 

<<Bevi>>. 

Era un ordine, non una semplice richiesta, sebbene posto con l'immancabile sorriso. 

Dopo il primo timido sorso, il medaglione prese a bruciare, frigolando sulla pelle nuda di Njchals. 

<<Dimmi Njchals, cosa vuoi davvero? Vuoi che spieghi la verità sul mondo? Vuoi che ti regali la capacità di concepire l'infinito? Vuoi ancora raggiungere il sublime?>>. 

Il giovane pittore, lottando contro il dolore, era riuscito a mettersi in piedi di fronte al suo antagonista, abbandonando ai suoi piedi il calice d'ambrosia. Distolse lo sguardo e si concentrò per ignorare l'odore di carne bruciata che proveniva dal suo petto. 

<<Voglio essere libero. Rescindere il patto>>. 

<<Ah>>, disse Dumal, <<questo temo non sia possibile. Lo capirai anche tu il perché. Hai ottenuto qualcosa in cambio della tua anima, anche se non hai ancora usufruito della capacità di cui ti ho investito. Questo non ha importanza, il debito è saldato. A meno che...>>. 

La speranza attraversò come un fulmine il viso del giovane. Nulla sarebbe stato tanto caro da non essere accettato, pur di liberarsi da quel giogo diabolico. 

<<A meno che io non prenda Isabella>>. 

Il sorriso malefico che comparì sul volto di Dumal era indescrivibile. Nessuno sarebbe mai stato in grado di condensare tanta malvagità, deturpando un gesto tanto innocente. 

<<Isabella no. Tutto, ma non lei>>. 

Le lacrime inizarono a scorroreve sul viso del ragazzo, che non sarebbe mai riuscito a sacrificare la persona che amava. Pensò a mille altre persone del suo passato, recente e remoto, con cui avrebbe fatto scambio pur di non dover cedere lei. 

- Che li prenda tutti -, pensò, - ma non lei -. 

<<Vedi, Isabella non è una persona comune. Isabella è colei che eri destinato a incontrare. Esiste, all'interno dell'ingranaggio che alterna ordine e caos, una componente indistinta, una terza forza che non favorisce nessuna dei due schieramenti ma che, nonostante ciò, elargisce carte in modo del tutto arbitrario. Sono come le tessere di un gigantesco mosaico: a volte il destino ne inserisce un paio, per avvicinarsi all'ordine, e altre ne toglie un paio, per allontanarsene. L'equilibrio così si mantiene senza permettere che il Creato collassi su se stesso. Ovviamente ciò rende lo scontro eterno, senza fine o soluzione finale. Tu sei un tassello unico, ma Isabella ti completa e, quindi, avete assunto la medesima importanza. Per questo ti chiedo: tu o lei?>>. 

Ecco chi era l'angelo caduto che si era impresso a forza sulla sua tela: era Dumal stesso che, in un gesto fuori controllo aveva già proteso le dita per afferrarlo. 

<<Prendi me>>. 

Neppure un gesto di tale generosità avrebbe potuto ribaltare le sorti di quel teatrino grottesco, Njchals lo sapeva, ma l'avvertì come un istante di totale consapevolezza. Se ogni uomo è destinato a pagare con anni di perdizione ogni goccia di felicità che gli è concessa, che così fosse. I sospiri che aveva vissuto con Isabella, i ricordi accumulati in un tempo tanto breve da sembrargli eterno, l'amore incondizionato che era sbocciato sin d quando i loro sguardi si erano incrociati per la prima volta, gli sarebbero bastati per andare avanti, sapendola salva. 

<<Sia come desideri, allora. Ti aspetto in un'altra città delle ombre>>. 

Al risveglio, Njchals ebbe la certezza che non si era trattato di un sogno. Sul tavolino di fianco al letto, illuminato dai tenui raggi di un sole non ancora sorto oltre le acque scure di Venezia, Njchals vide un biglietto ferroviario. La destinazione era diversa da Parigi. Dentro di sé abbandonò la speranza di vivere anche solo un altro momento di gioia con Isabella. Il rammarico di non poter più costruire ricordi, provare sentimenti e viverle a fianco lo colpirono con la forza di un pugno nell'animo. 

Ormai era tutto deciso. 

Prese dalla valigia il quadernetto che usava per gli schizzi a matita e inziò a scrivere. 

Isabella colpì dolcemente la porta della camera di Njchals. Non ricevette risposta la prima volta e nemmeno la seconda. Dopo la terza, afferrò piano la maniglia dorata per aprire la porta che li divideva. 

Njchalas non c'era. 

Non c'era lui e non c'erano nemmeno le sue cose. Se ne era andato, lasciandola lì. 

Isabella si diresse verso il letto, fissando le finestre della camera, per contemplare la medesima vista di cui aveva goduto il suo innamorato solo poche ore prima. Fu allora che i suoi occhi si posarono sul quadernetto che Njchals aveva lasciato indietro. 

Lo prese tra le mani e passò in rassegna i dipinti irrealizzati, che in quella fase iniziale dovevano ancora prendere forma, materiazzandosi sulla carta sotto influsso di una magia di cui non conosceva l'esistenza. 

Le ultima pagine erano vergate da poche riche. La carta porosa portava ancora il segno delle lacrime cadute. 

Amata Isabella, 

So di non poterti dare una spiegazione. Non basterebbero le parole e uno sguardo sarebbe incomprensibile. 

Sebbene abbia sempre bramato l'immortalità, avrei voluto vivere con te il resto della mia vita e, una volta giunto alla fine, guardare la morte senza rimpianti, consapevole di aver impiegato bene il tempo a mia disposizione. 

Ora che non potrò più averti, l'eterno pare un concetto doloroso. Ogni minuto lontano da te fa già male. 

Il fatto è che, nella vita, ci sono decisioni che non possono essere ignorate, ma che continuano a decretare il lento scorrere del tempo. Senza fermarsi mai. Quella che ho preso prima di conoscerti ha macchiato ogni speranza di libertà, imbrigliandola in un avvenire di cui non posso aver certezze, se non questo lento addio. 

Avrei voluto protrarre all'inverosimile la pacata serenità che mi dava il tuo sorriso. Riceverlo è stato il dono più grande che potessi mai sperare di ricevere. Anche se avessimo passato anni, decenni l'uno di fanco all'altra non credo mi avrei accettato di vederlo svanire dalle tue labbra. Avrei sacrificato ogni particella del mio essere puché ciò non accadesse. 

Sei arrivata in un periodo, figlio di segreti e ricordi dolorosi, dove non potevo sperare di trovare una via d'uscita dal turbinio di cui ero prigioniero. Problemi e mancanze, immagini che mi squarciavano il petto in un lampo di luce si alternavano al lento scorrere del pennello sulla tela, in giornate che non avevano senso. Sei giunta tu a farmi assaporare un barlume di speranza, dissipando la coltre che avevo eretto per proteggermi dalla verità e dal mondo. Lo stesso mondo che, ora, devo affrontare da solo. Non per scelta consapevole, bensì per un susseguirsi di passi che mi condurranno a capofitto verso l'oblio. Il buio che ora alberga dentro di me è il medesimo che avvertivo prima di scorgerti di spalle, un perenne stato d'infelicità che non mi abbandonerà mai. 

Prima non davo importanza a come ogni uomo viva i propri respiri, immerso nel dramma della dannazione eterna, con una valigia in mano, alla ricerca di una pace dove chiudere gli occhi. Occhi che ti hanno visto nascere, crescere, vivere, innamorarti, piangere e morire. Morire morire e morire all'infinito, nel lasso di un unico battito di ciglia. Nella mia vita non percepivo altro che il riflesso di una sposa candida con il ventre macchiato di sangue e uno sposo che regge in mano una fede, promessa di odio e di sconforto per tutti i giorni venturi. Non volevo nulla di tutto questo. Mi ero imposto di non cedere ai sentimenti, di guardare solo a me stesso e di non desiderare altro se non il sublime. Di vivere tra i colpi di pennello con cui sferzavo al tela. 

Dopo averti incontrata, il muro eretto in mia difesa è stato distrutto e ora l'abbandono brucia più di ogni altro peccato che mi porterò nella tomba. 

Ti prego solo di non dimenticarmi. 

Conserva nel cuore gli unici momenti felici che io abbia mai vissuto, prima che l'oscurità mi rapisse, portandomi via da te. 

Potevo darti solo sogni impossibili e tutto me stesso, nella speranza che bastassero. 

Tuo per sempre, 

N. 

Isabella rilesse più volte l'ultimo pensiero che Njchlas aveva avuto l'opportunità di concederle. Non aveva senso, in quel frangente, chiedersi il perché di questa decisione: per quanto si potesse sforzare, non ne sarebbe venuta a capo. Avvertì il dolore dirompente che accompagna l'abbandono, l'infrangersi della realtà che avrebbero potuto vivere insieme e i sogni condivisi andare in frantumi. Nella sua stupidità, già vedeva dei bambini con il suo sguardo serio e un alone trasognato negli occhi. 

Una lacrima solitaria iniziò a scorrerle lungo le stesse guance che Njchals riusciva a far infammare con un solo sguardo. Aveva condensato in quell'unica lacrima il dolore che poteva provare per la fine di un amore che non aveva avuto modo di sbocciare appieno, una relazione che avrebbe potuto vincere qualsiasi ostacolo al modico prezzo del sacrificio in virtù dell'altro. Se Njchlas gliel'avesse concesso, non si sarebbe mai tirata indietro: avrebbe lottato fino allo stremo delle forze per tenerlo vicino, sicura della bellissima perfezione di un ragazzo imperfetto. 

Immaginò il sapore della sua pelle; le sue labbra che si dischiudevano di nuovo in un bacio in grado di allontanare tutto il resto; la concessione di cui l'amore è servo e che non permette ripensamenti. 

Decise che non avrebbe più abbandonato Venezia, nella vana speranza che sarebbe tornato. Preferì sacrificare la sua intera esistenza per amore di uno sconosciuto, piuttosto che concedersi il lusso di dimenticare. Immaginò se stessa ritta in mezzo a una San Marco deserta, lasciandosi trascinare dalle luci soffuse disseminate per la piazza. Si rendeva pian piano conto che il vuoto che l'abbandono aveva creato l'avrebbe seguita come un'ombra nella vita. 


*** 

Le prime luci dell'alba risvegliarono l'Oriente in tenui spruzzi di colore tra le nuvole cariche d'acqua, disfacendo una strada di stelle che conduce alla notte ormai conclusa. Un ragazzo dai capelli spettinati, gli occhi gonfi di rabbia e l'animo pesto sedeva immobile su un vagone dei tanti. Il tempo non aveva in serbo una giornata carica di sole e l'alone plumbeo si rifletteva nell'animo di chi osservava il cielo, insinuando la melanconia nelle pieghe della coscienza. 

Il treno era completamente vuoto, nonostante fosse l'ora di punta. Sembrava un abitato da fantasmi e che nessuno fosse intenzionato ad andare nella sua stessa direzione, sicuri che conducesse alle porte dell'Inferno. Passò il viaggio rinchiuso nel suo mondo, facendo a botte con i suoi peccati, senza riuscire a vedere un avvenire per se stesso. E rimpiangendo il futuro che avrebbe potuto vivere se solo avesse preso scelte diverse. 

Durante il viaggio disse solo poche parole, al controllore, rispondendo alla domanda "Dove è diretto?": 

<<Lontano, nella città delle ombre>>.


 Pietro Bazzoli. Giornalista / Scrittore


NOTA DELL'EDITORE

Cari lettori e seguaci di La Vie Charmant. 

Con questa nuova puntata, dell'atteso racconto, del giovane scrittore e giornalista italiano, Pietro Bazzoli, abbiamo raggiunto la fine della storia "VITE PARALLELE. THE NJCHALS'STORY"

Per noi, Editorial virtuale Pombilio Diseños, è stato un immenso piacere, e onore, condividere con tutti voi, il lavoro eccezionale di questo giovane talentuoso che, sicuramente, darà molto di cui parlare, per il suo buon lavoro, nel mondo del giornalismo e lettere.

Per me personalmente, è stata una gioia immensa poter pubblicare il suo lavoro, che ho amato da quando ho letto il primo capitolo. E soprattutto, mi sento immensamente onorato, per essere stato scelto da Lei, come uno dei suoi protagonisti nella figura del gallerista.

Grazie Pietro Bazzoli per aver fiducia in La Vie Charmant, per mettere il tuo lavoro nelle nostre mani. 

Grazie per averci permesso di consegnare questo dono ai nostri amati lettori internazionali. 

Grazie per essere come sei e, soprattutto, grazie per la tua amicizia e vicinanza.

A Pombilio Designs, La Vie Charmant e SUROESTEonline, hai sempre le porte aperte.

Dott. Don. Claudio Emilio Pompilio Quevedo
Direttore / Direttore
Italia, 14 maggio 2018





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